martedì 14 marzo 2023

Data astrale 1332023. La Comandancia de la Plata (day 7-8)

 Approfitto di qualche ora di sosta alla stazione degli autobus per buttare giù “due righe” sulla visita di oggi, e lo faccio in un modo che non amo particolarmente, ovvero scrivendo al presente, per verificare se ci riesco e, soprattutto, per vedere se riesco a farmelo piacere.

 

Partiamo da ieri: alle 15:00 parto in autobus alla volta di Bayamo, senza avere la minima idea sul come raggiungere Santo Domingo, a circa un’ora e mezza di strada, dove devo passare la notte. Durante il viaggio contatto Casa Sierra Maestra, che pensavo essere un Hotel ed invece si rivela essere una Casa particular, e, grazie alla collaborazione (non proprio disinteressata) di Ulysses – proprietario, consierge, cameriere, receptionist, mannyaggiustatutto e chissà cos’altro della struttura – riesco ad organizzare sia gli spostamenti che la visita al Parque National del Turquino ed alla Comandancia de la Plata, sia pure al costo di un trapianto di rene (voi fa’ ‘r viaggiatore disorganizzato? Paga).

 

Il dio dei zainari, però, si muove evidentemente a compassione ed all’arrivo alla stazione dei bus mi fa incontrare una coppia di backpackers olandesi, altrettanto (consapevolmente) disorganizzati ed interessati allo stesso itinerario; in pochi minuti riesco facilmente a convincerli a dormire nel mio stesso posto ed a condividere la visita dell’indomani, il che mi permette di ridurre di un buon 30% i costi. Tiè!

 

E qui comincia l’avventura del signor Bonaventura, ripeteva sempre mia madre quando ero piccolo e, puntualmente, ci perdevamo a causa dell’inesistente senso dell’orientamento di mio padre.

 

Alexey, l’autista inviatoci da Ulysses, ci fa accomodare nella cabina di un enorme camion di fabbricazione russa a trazione integrale (due sul sedile ed uno nella cuccetta, insieme agli zaini), che ha un cassone posteriore all’interno del quale, lungo la strada, prendono posto decine di persone, salendo e scendendo come si trattasse di un autobus.

 

Anzi, ci spiega, si tratta proprio di una sorta di autobus perché al primo punto del contratto di affitto che ha firmato con l’autorità provinciale per noleggiare il mezzo (che, forse, tra quattro anni potrà acquistare, se avrà abbastanza denaro e non ci saranno state lamentele nei suoi confronti), c’è proprio l’utilità sociale: tu porta chi ti pare, però lungo la strada devi far salire chi te lo chiede, ed a prezzi regolamentati (roba di centesimi di euro).

 

Ecco perché noi, che siamo turisti e paghiamo enormemente più di loro, veniamo fatti accomodare nella cabina, con sedili “comodi” ed “aria condizionata” (le virgolette sono d’obbligo).

 

Comunque, il viaggio è piacevole e, tra una chiacchiera e l’altra, si svolge senza grossi scoss… No, direi proprio di no: la strada è completamente sgarrupata e per un’ora e mezzo i miei compagni d’avventura ed io veniamo sballottati da una parte all’altra, che neanche il Frecciarossa per Reggio Calabria; come se non bastasse, ci arrampichiamo su pendenze che superano il 30% e che non credevo si potessero salire con mezzi diversi dai fuoristrada, auto o moto che siano (e questo spiega l’utilizzo di un mezzo con trazione integrale), dove “l’asfalto” è sostituito dal cemento striato (non so come si chiami, ma è quello che si usa per le rampe dei garage, per capirci) che, oltre a mischiarti le vertebre, ti allenta anche i bulloni delle protesi dentarie.

 

In compenso, lo spettacolo della Sierra Maestra al tramonto è spettacolare, da togliere il fiato e questo ripaga di tutto.

 

Alla fine arriviamo a destinazione e, prima ancora di andare in stanza per lasciare gli zaini, ci sediamo per cenare, anche perché Ulysses ci dice che la luce non tornerà prima delle 8:00 de la tarde (questa almeno è la sua speranza), e le stanze sono al buio, mentre la zona ristorante è alimentata da un gruppo elettrogeno a benzina.

 

A cena, i miei nuovi amici mi raccontano di essersi conosciuti casualmente qualche anni fa in aereo, trovandosi seduti l’uno accanto all’altra accanto dopo una serie di cambi di posto da parte dell’equipaggio, e di essersi trovati subito in sintonia proprio parlando di viaggi. Romanticherie a parte, mi dicono che, appena hanno messo da parte abbastanza soldi, si sono ritirati dal lavoro (tradotto: sono andati in pensione) nonostante fossero ancora relativamente giovani, si sono trasferiti un appartamento “piccolo ed umile”, il tutto per avere la possibilità di viaggiare ogni qualvolta se lo possono permettere. Che dire… chapeau.

 

Finito di cenare (omelette, pomodori e melanzane sott’olio per me), approfittando del fatto che, nel frattempo, è tornata la luce, Ulysses ci accompagna nelle nostre stanze, raggiungibili dopo aver attraversato il greto di un fiume in secca camminando su una passerella di tavole e canne di bambù che, per quanto ondeggia, sembra piuttosto un ponte tibetano. Il tutto, ovviamente, alla luce della torcia del telefonino.

 

La stanza è carina, ed il servizio è eccellente e pronto a soddisfare tutte le nostre esigenze: non faccio in tempo a dire che nella doccia c’è una blatta grande come un’aragosta, che Ulysses ha già provveduto a toglierla da lì, garantendole una degna sepoltura con rito vichingo nel wc (la mattina dopo ne ho trovata una ancora più grande, ma ho provveduto autonomamente, sfruttando l’esperienza accumulata a Reggio Calabria).

 

Però, c’è sempre un però… Va bene tutto, ma ci sono cose su cui non si può soprassedere e far finta di nulla, perché travalicano i limiti della sopportazione; ora dico: ma se hai due letti matrimoniali nella stessa stanza, come ti viene in mente di coprirli con un copriletto giallo ed uno rosso? E dai, su, almeno un minimo di decenza…

 

Ok, torno in versione Zen e vado a nanna.

 

Alle 7, quando ormai da almeno un’ora un numero imprecisato di galli avverte l’intera vallata che l’alba si sta appropinquando (sabato, qui, è cambiato l’orario, quindi albeggia tardi), suona la sveglia; una doccia veloce (aaaah Ulysses, “l’acqua non è molto calda” un cazzo, questa è proprio gelata), qualche foto in giro e sono pronto per la colazione (omelette, pomodori e pane con miele) e poi via verso nuove avventure.

 

Per raggiungere la Comandancia bisogna percorrere due kilometri in auto, che permettono di coprire i 600 metri di dislivello (pendenza media 30%, con punte al 45%, delle vere e proprie pettate (scusate il gergo ciclistico, vecchie abitudini) tra l’ingresso del parco ed il punto di partenza della camminata, che consiste in un altro paio di kilometri a piedi su un sentiero, troppo sgarrupato anche per chiamarsi così.

 

La guida, in un inglese un po’ stentato ma che dimostra enorme volontà, ci racconta della rivoluzione, degli anni della guerrilla, ci fa immergere nella vita degli uomini che hanno passato mesi in quella foresta, combattendo e nascondendosi, vivendo di notte per sfuggire agli aerei di Batista che avrebbero potuto individuare scie di fumo o colonne di persone, ma ci illustra anche le piante, i fiori, gli uccelli, quasi ad ingentilire un po’ quell’atmosfera di sudore, sacrificio e morte. Ci racconta dei campesinos, quelli di allora che aiutarono Fidel ed i suoi uomini, e di quelli di ora, che abbandonano le montagne perché le condizioni di vita sono troppo dure, “perché qui non c’è elettricità, e oggi nessuno vuole vivere senza elettricità”.

 

Però”, aggiunge, “adesso la Rivoluzione fornisce a chi rimane in montagna molti pannelli solari, così posso avere l’elettricità”. La Rivoluzione. Non lo Stato, non il Governo, non il partito. La rivoluzione.

 

Riguardo il villaggio vero e proprio, le capanne di legno con i tetti di foglie di palma e/o lamiera dove Castro ed un manipolo di barbudos vissero quella fase fondamentale della Rivoluzione, non molto ravvicinate tra loro per evitare che potessero essere distrutte contemporaneamente da un bombardamento, sono talmente ben posizionate e mimetizzate da risultare invisibili anche da pochi metri di distanza, figuriamoci dall’alto (e infatti non furono mai colpite dai bombardamenti ad mentula canis operati dai bombardieri di Batista nella zona, nel tentativo di stanarli); ovviamente, per via del tempo trascorso e degli uragani che si sono abbattuti su di esso, in parte si tratta di una ricostruzione dell’accampamento originario (nella casa di Fidel sono conservati il letto, il tavolo ed il frigorifero a petrolio originali, per gli amanti del genere), ma rende perfettamente l’idea delle condizioni in cui vivevano i suoi abitanti, e sembra quasi di vederli, in cerchio, a discutere di tattiche di guerriglia, di socialismo, delle famiglie lasciate chissà dove o a stramaledir le donne, il tempo ed il governo in attesa di vedere arrivare o partire una pallottola o una granata.

 

Finita la visita, si torna giù per lo stesso sentiero sgarrupato e la stessa strada, pettate comprese (ma stavolta in discesa, e sono ancora più impressionanti); rientrati Casa particular, pranzo (manco a dirlo, omelette e pomodori, questa volta con un po’ di formaggio), (ghiaccio)doccia e poi via, alla volta di Bayamo, e così facciamo.

 

Salutato il nostro uomo a Bayamo (semi cit., giusto per fare un mix tra Joyce e Greene), saliamo in cabina e, dopo aver affrontato discese particolarmente ardite – che, vista la stazza del mezzo, costringono il motore ad urlare come neanche Al Bano nei momenti migliori, e che i ragazzini del luogo scendono con i carretti in legno (che ricordi...) – e speculari risalite, arriviamo a Bartolomè del Maso, dove il nostro amico Alexey carica nel cassone posteriore non meno di una cinquantina di donne, uomini e bambini, molti con bagaglio al seguito (la portata ci aveva detto essere di 30 persone, 20 sedute e 10 in piedi) stipati come bovini diretti al macello. “Però” ci dice sempre l’autista, indovinando i nostri pensieri dalle facce incredule, “sono fortunati perché questo è il mezzo più nuovo ed efficiente della provincia”. E la cosa peggiore è che ha anche ragione.

 

Che culo.


P.S. E' ufficiale: scrivere al presente non mi riesce e non mi piace. FAILED.

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