martedì 4 giugno 2013

70.3 Miami 2012. Storia di amore, di sport e di altre sciocchezze.



Sono circa sette mesi che penso di scrivere questo racconto del mio primo 70.3, corso il 28 ottobre 2012 a Miami, e, probabilmente, se si fosse trattato solo della cronaca dell’evento sportivo, l’avrei sicuramente già pubblicato.
 
Quello che segue, invece, è qualcosa di diverso: è il lungo e noioso resoconto di un viaggio lungo due anni, di un’esperienza di vita, di un “filo rosso” che unisce gare, frazioni e palloncini, distanti tra loro mesi e migliaia di chilometri, che non avevo ancora scritto per la mia riluttanza a partecipare ad altri questioni personali e familiari.

Oggi, però, all’immediata vigilia della gara di Pescara, ho pensato che fosse il momento giusto per condividere le fortissime, contrastanti emozioni vissute quel giorno, prima che possano essere, anche solo in parte, sostituite da quanto vivrò il prossimo weekend in terra abruzzese, e nella speranza che condividere, per una volta nella vita, con più persone i miei sentimenti possa finalmente aiutarmi ad elaborarli.




Cominciamo (quasi) dalla fine.
5:00 a.m. October 28 2012, 1801 Collins Ave, Miami, Florida.

Uno sguardo ai miei angeli dormienti, li abbraccio col pensiero e via: “Statemi vicini, oggi ne ho bisogno…”.

Esco dallo Shelborne Hotel e mi scontro con un gruppo di uomini e donne afroamericani, mascherati ed ubriachi, appena scesi da una mega limousine bianca, con l'evidente intenzione di proseguire la nottata tutti insieme. Ah, già, è la notte di Halloween. Mi compiaccio per loro, ma ho altro a cui pensare.

Il bus che mi avrebbe dovuto condurre a Bayfront Park, puntuale al secondo, sfreccia davanti ai miei occhi mentre attendo il semaforo verde per attraversare. Ok, prenderò un taxi.

Lungo la strada restano ancora alcuni rami spezzati e qualche cartellone pubblicitario divelto, ultimi segni dei danni causati dall’uragano Sally, passato a pochi chilometri dalla costa il giovedì precedente, dopo aver devastato Cuba ed altre isole caraibiche (e che, nei giorni successivi seminerà morte e distruzione anche nel nord-est statunitense, portando addirittura alla cancellazione della Maratona di New York, la più famosa ed organizzata del mondo). E dire che Sally è la mia canzone preferita…
 
Dai ponti della MacArthur Causeway il panorama mozza il fiato. La luna piena, lo skyline di Downtown nel cielo ancora scuro, la baia di Byscaine e le sue acque “nere come il petrolio”, le enormi navi da crociera che illuminano il porto, l’American Airlines Arena con i suoi giochi di luce e le gigantografie dei “Big three”, visti giocare dal vivo un paio di sere prima con Picchio, tutto contribuisce a donarmi emozioni positive e serenità.

Arrivo in zona cambio, la mia bici è lì che aspetta dal pomeriggio precedente, e, mentre inizio a sistemare le solite carabattole, la prego di non fare scherzi, stavolta: l’esperienza negativa di Pescara è stata sufficiente, e non voglio tornare in Italia senza essere passato sotto l’arco d’arrivo. E' troppo importante, stavolta.

Manca ancora molto al via, mi sento sereno e faccio le cose con estrema calma, godendomi ogni momento, ogni gesto: ci sarà tempo per correre, tra poco. Non ho ancora terminato di preparare il tutto, ma decido comunque di farmi un giro: fisici scolpiti dall’allenamento, fantabiciclette da migliaia di dollari al chilo e montain bike con pneumatici da strada, caschi con lo strascico da far invidia ad una sposa, atleti Elite ed amatori (qualcuno anche piuttosto sovrappeso), giudici di gara, volontari pronti a dare una mano per qualsiasi necessità. Mi piace quello vedo, quello sento, quello che percepisco…

Nel mio peregrinare, incontro i Gentile brothers, Giuliano e Claudiano, che, con la loro scanzonata allegria, anche in quei momenti non perdono l’occasione di prendersi un po’ in giro: una sorta di Gianni e Pinotto che però, in gara (e soprattutto nel dopo gara), si trasformano in Caino ed Abele…

6:45 a.m. Ho finito di preparare la mia piazzola, prendo la muta, do un’ultima occhiata alla bici, le strizzo l’occhio e mi avvio verso la zona di partenza, sempre insieme a Gianni e Pinotto. Il sole inizia a fare capolino dietro Miami beach, e lo spettacolo mi da i brividi: no, non è il freddo, ma il ricordo di quell’alba vissuta quasi due anni prima, sempre lì. Ricaccio indietro le lacrime, ma l’emozione monta.

7:25 a.m. Dopo aver raggiunto l’apice dell’esaltazione della retorica yankee, con migliaia di persone in religioso silenzio per seguire il rito dell’alzabandiera – da parte dei militari, rigorosamente differenziati da arma di provenienza, razza e sesso, in omaggio al “politically correct” – e dell’inno nazionale cantato dal vivo, ecco finalmente lo sparo che da il via alla gara: partono gli Elite uomini, poi le donne e via via si susseguono le batterie di A.G.

8:15 a.m. Indossiamo le mute aiutandoci a vicenda, infilo il tappo nell’orecchio destro – ricordo di una manata rimediata ad agosto nello Sprint di Bolsena, che mi ha causato una bella perforazione e due mesi di stop nel nuoto, protrattosi fino a pochi giorni prima della gara – ed eccomi in acqua, ad attendere lo sparo che darà il via alle mie danze.

Mi metto un po’ in disparte per evitare di ripetere l’esperienza della tonnara, poco interessato a guadagnare qualche secondo di cui oggi non sento assolutamente il bisogno, perché quello che voglio è arrivare in fondo, per Anto, per Dita, per Picchio. Ed anche per me.

In quei pochi istanti di ammollo che precedono il via mi isolo completamente nei miei pensieri, che, nelle ore successive, mi porteranno a rivedere luoghi e rivivere momenti dispersi nella memoria, tenendomi compagnia per tutta la durata della gara. Già, perché tante ore, durante le quali non si hanno altre incombenze se non quelle legate al gesto tecnico ed al sostentamento, ti lasciano un sacco di tempo per pensare; anzi, ti obbligano a pensare…

8:20 a.m. BANG. Via, si parte. Ripenso ai (pochi?) chilometri nuotati in piscina ed alle istruzioni ripetutemi centinaia di volte da coach Diego: nuotare lungo, non incrociare, il braccio vicino all’orecchio, sguardo in avanti, allungati, sfiora la coscia, gomito alto, guarda la boa… Cerco di metterle in pratica, e la cosa sembra funzionare. Grazie, coach, davvero…

L’acqua della baia è talmente scura e marrone che mi fa ripensare alle immersioni nei laghi, quando il sedimento sollevato limitava la visibilità a pochi centimetri; e dire che siamo a due chilometri dalle acque cristalline di Key Byscaine.

Dopo aver passato la prima boa, passo a pochi metri da un'enorme nave da crociera, con i personaggi di Walt Disney dipinti sulla chiglia; qualche decina di metri più in alto, qualche crocierista saluta agitando le braccia, partecipando a suo modo all'insolito evento. Poi la seconda boa, la terza, ed ecco la scaletta che segna la fine della prima frazione. Guardo il Garmin: 38 minuti e spicci. Ok, non è andata poi così male… ora inizia la gara.

Mentre corro verso la zona cambio, sfilo la muta e passo sotto un getto d’acqua per togliermi di dosso la sensazione di salinità e viscidume, poi raggiungo la piazzola, indosso cintura portanumero, calzini, casco ed occhiali e spingo la bici fino all’uscita, poi monto in sella, do i primi colpi di pedale, infilo al volo le scarpette assicurate con l’elastico e via, verso l’ignoto...

Il percorso bike è costituito da un “bastone” di circa 45 chilometri, la maggior parte dei quali si snodano, in direzione Nord Ovest, lungo una strada statale, la US 27, che attraversa le famose paludi del Parco delle Everglades; controvento ed in leggera – ma costante – ascesa all’andata, ed un ritorno che ti farebbe sentire Cancellara, se non fosse che sei a favore di vento in lieve discesa…

Poco dopo la partenza mi raggiunge Giuliano, inserito nella batteria successiva alla mia nella frazione di nuoto, e facciamo un tratto di strada insieme. Per me la sua esperienza è preziosa, e cerco di ripetere ciò che fa lui per evitare di mettere in pericolo gli altri concorrenti. Gli chiedo notizie di Claudiano, e lui mi dice che, sicuramente, ci raggiungerà a breve. Non sarà così, ma lo scopriremo solo vivendo.

Dopo aver percorso qualche chilometro, non sentendolo più, mi volto per accertarmi della presenza del mio compagno di ventura ma, con mia grande sorpresa, non lo vedo in mezzo al codazzo che mi segue… Avrà avuto un problema, penso, ma ormai è troppo tardi per accertarmene, perché non so da quanto tempo l’ho perso. Ok, allora, avanti da solo, tanto mi raggiungerà di nuovo.

In alcuni tratti, più che una gara no draft sembra una tappa di trasferimento del Tour de France, tanto sono folti i gruppi che si formano; spesso si procede addirittura su tre file, e ciò rende praticamente impossibile sorpassare ed attenersi ai regolamenti. Io cerco di andare per la mia strada, ogni tanto  raggiungo qualche concorrente davanti a me, altre volte pedalo in solitaria e mi accorgo di avere dietro una coda che neanche alla Posta: ma come, con le vostre SuperTT in carbonio con il cambio da 2.000 euro, state in scia ad un rookie che tenta di spingere un cancello di alluminio a forma di bici da corsa, che ricorda i Bersaglieri della breccia di Porta Pia? Mah, credo che dobbiate rivedere i vostri obbiettivi…

Ad intervalli più o meno regolari, invece, mi superano i gruppi costituiti dai concorrenti più forti partiti nelle batterie successive alla mia, ma me ne curo ben poco, e proseguo per la mia strada, sempre perso nei miei pensieri, e intanto recupero a mia volta un discreto numero di concorrenti. Proprio mentre sto per superare un tale, sopraggiunge, a velocità doppia rispetto alla mia, una specie di Superman con Supersborobike, Supercasco a goccia e supergambali che, affiancandosi, con aria truce, mi urla un ironico “Well done… Good job…”, alzando il pollice al cielo. "You're right, man!",hai ragione da vendere. Vorrei spiegargli che il tipo che ho davanti l’ho appena raggiunto, che sto pedalando al mio ritmo e senza scia da quando siamo usciti dalla città, ma nel frattempo è già lontano, seguito - ironia della sorte - da almeno una decina di concorrenti. Da quel momento, farò di tutto per pedalare NO-DRAFT.

Come previsto, vengo nuovamente raggiunto da Giuliano, il quale mi dice di non sentirsi troppo in forma; dopo poco, infatti, lo perderò di nuovo. Tranquillo, penso, tanto mi riprenderà ancora.

In corrispondenza del “giro di boa” c’è il rifornimento (anche se sembra un grande banco di street food) con ognibendidio: acqua, Gatorade, gel, banane, arance, dolci e non ricordo più cos’altro, poi volontari, bagni chimici, un punto di pronto soccorso ed anche un po’ di pubblico, davvero inatteso in quell’angolo sperduto di Florida, nel bel mezzo del nulla. Complimenti, yankee...

Il tratto di ritorno è di quelli che fanno crescere l’autostima, e volo a medie per me incredibili (scoprirò più tardi essere superiori ai 40 km/h), subendo pochissimi sorpassi (magari quelli forti mi avevano già superato all’andata, ma mi gaso lo stesso…).

Ecco nuovamente Miami Downtown con le sue zone residenziali ed i suoi giardini, alcuni dei quali trasformati, loro malgrado, in dormitori a cielo aperto per decine di homeless, scampati alle varie deportazioni succedutesi negli ultimi anni. Già, perché Miami è anche questo, non solo South Beach, Aventura Mall, Golden Beach o Coconut Grove, ma loro sono gli invisibili, e nessuno li mostra nei telefilm.

Arrivato nei pressi della zona cambio cerco di capire quali siano le mie condizioni fisiche, e mi sembra di stare piuttosto bene, con i muscoli non troppo indolenziti, le energie residue apparentemente a livello soddisfacente, e, soprattutto, la ferrea volontà di arrivare in fondo che non mi abbandona neanche per un attimo.

Rimetto la bicicletta al suo posto, la ringrazio per avermi portato sino a lì, infilo le scarpe da corsa e via; “Ormai è fatta.”, penso, convinto che la corsa sia poco più di una formalità che mi condurrà all’arrivo.

Affronto i primi metri con passo tranquillo e corte falcate, per dare la possibilità ai muscoli di sciogliersi, poi mi metto sul passo dei 5.20-5.30/km con l'idea di vedere come va, per poi spingere finché ce n’è… Le gambe iniziano a girare, sembra andare tutto per il meglio, ben oltre le mie più rosee aspettative. Ma non durerà a lungo.

Percorro tre o quattro chilometri, ed inizio a percepire una fastidiosa contrazione dei muscoli lombari, che si fa via via più intensa, fino a costringermi dapprima a rallentare e, successivamente, a fermarmi per un po’ di stretching. Niente, la situazione non migliora. Riprendo a correre, ogni tanto cammino cercando di allungare la schiena, poi riparto, e così via.

Con il fastidio che si è trasformato in dolore vero e proprio, arrivo al ristoro sotto al cavalcavia della MacArthur Causeway, mi fermo per bere un po’ di Coca Cola, mi appendo con le mani ad una balaustra per distendere la schiena. Niente, non va.

Concludo il primo dei due giri previsti, sfiorando appena l’arco dell’arrivo, ed il dolore si fa davvero inteso.

Ok, vorrà dire che concluderò corricchiando e camminando fino alla fine, ma certo non posso mollare proprio ora. Non mi arrenderò su quelle strade, non su quel ponte, non in quel Bayfront Park che ha già visto il mio arrivo alla mezza maratona di Miami, poco meno di due anni prima.

Già, perché questa gara parte da molto lontano, dal settembre del 2010, quando decido di partecipare alla ING Half Marathon di Miami del 30 gennaio 2011, una bella occasione per fare una vacanza con Anto e festeggiare il compleanno del nostro amico Roberto, che abita proprio dinanzi al parco.

Biglietti fatti, ferie accordate, ESTA regolare, poi, a fine dicembre 2010, la fantastica notizia: la famiglia si allarga. La felicità, com’è ovvio, ci assale, ma Anto, su consiglio medico, dovrà rinunciare alla trasferta oltreoceano. Ok, tranquilla, vi porterò con me lo stesso.

E così, all’alba di quel 30 gennaio 2011, alla partenza della mezzamaratona, non sono solo, ma ho accanto a me, virtualmente, tutta la mia famiglia. Picchio – che non mi abbandona mai, tatuato sulla pelle e nell’anima – Anto ed il piccolo palloncino percorreranno con me ogni metro di quella gara, berranno con me ai ristori, si commuoveranno sulla Ocean Drive vedendo sorgere il sole sull’oceano e, soprattutto, taglieranno con me il traguardo, con gli occhi insolitamente inondati di lacrime.

 
Come tutti i bambini sanno, però, a volte i palloncini volano via, salendo in cielo fino scomparire e lasciandoli sulla terra, piccoli e malinconici, a pensare di averli persi per sempre e ad immaginare una nuvola dove tutti i palloncini danzano liberi nel vento.

Ma siccome “certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”, a volte può accadere che i palloncini, al termine di un lungo e misterioso viaggio, tornino indietro a regalare nuovamente gioia ed allegria a chi li ha amati. Questo è ciò che il destino mi ha voluto immeritatamente regalare, ed ora il piccolo palloncino in carne ed ossa, Anto e Picchio sono lì, a Bayfront Park, ad attendere il mio arrivo.

Un detto recita: “Ci sono due modi per tornare dal campo di battaglia: con la testa del proprio nemico, o senza la propria”; beh, la mia idea di sport è lontana anni luce da concetti come quello: è vita, divertimento, sorriso, sensazioni positive. Ma oggi non mollo, costi quel che costi.

A tutto questo penso durante l’ora di sofferenza che mi separa dal loro abbraccio. Nel frattempo, incrocio Giuliano e Claudiano, i quali non sembrano stare molto meglio di me, anzi… Cerco di spronarli un po’ (certo che si è proprio invertito il mondo, io che sprono loro…), ma sembrano avere guai persino peggiori dei miei. Anche loro, comunque, stringeranno i denti sino alla fine, portando a termine la gara.

Ecco di nuovo l’arco di arrivo, e stavolta non dovrò voltargli le spalle, ma potrò finalmente attraversarlo.

Rallento, cerco con lo sguardo la mia famiglia, ma non la vedo. Avrei voluto attraversare l’arco d’arrivo con i miei piccoli, anche a costo di vedermi squalificato, perchè non è certo per la medaglia che sono arrivato fin lì: il senso del viaggio sta nel viaggio stesso, non nella meta. Io la penso così, e quel viaggio, durato quasi due anni, sarebbe dovuto finire in quel modo. Ma tant’è…

Non alzo le braccia al cielo, perché lassù non saprei davvero a chi rivolgermi, ma le allargo verso il pubblico, numerosissimo, perché lì, da qualche parte, c’è il mio mondo. Batto tantissimi “cinque” ad un mucchio di ragazzini e, ancora una volta, non riesco a trattenere le lacrime, ma chi se ne frega: io sono questo.

2:00 p.m. Attraverso la linea che sancisce la fine del viaggio, con lo speaker che pronuncia (sbagliandolo) il mio cognome, quello di Picchio, quello di Dita… Quello di Anto no, non ancora…
 

Fermo il Garmin senza degnarlo di uno sguardo – mi renderò poi conto di non averlo più guardato dal momento dell’uscita dall’acqua – ritiro la medaglia da Finisher, poi mi guardo intorno, ed ecco, finalmente, il vero, unico premio, schierato rigorosamente all’ombra.

Mamma Anto, con Dita in braccio, quasi si commuove, ed io con lei. Grazie di esserci, sei tu la campionessa di casa, che deve affrontare giornalmente il decathlon sfiancante della neo-mamma, pur di supportarmi (e sopportarmi) negli allenamenti e nei momenti di sconforto.

Picchio (beata ingenuità) sembra quasi deluso perché non ho vinto, ma credo che sia orgoglioso di ciò che ho fatto, quasi quanto lo sono io.

Mi avvicino, sfioro le loro guance in un bacio, riprendo un minimo di fiato, poi stringo a me il mio piccolo palloncino e, con lei, mi dirigo verso il fotografo ufficiale. Ancora una volta una foto insieme, piccola, ancora a Bayfront Park, ancora a Miami. Grazie per essere tornata.

Picchio, invece, è troppo grande (!!!), e non può entrare nella zona di arrivo, ma, come sempre, sulla foto c’è anche lui. A te, che forse più di tutti sopporti il peso delle mie assenze e dei miei egoismi, un enorme, infinito Grazie.


Infine, per quanto d’importanza marginale, il cronometro ha comunque fornito il suo responso, con un (dignitoso?) 5:40:43 così suddiviso: Swim: 39:06 Bike: 2:47:02 Run: 2:08:10. Importanti, invece, sono i ringraziamenti a coach Diego per aver voluto affrontare l’impresa improba di allenare uno come me, ai fratelli Gentile, a Strong, a Papy e a tutti i ragazzi del team  per i loro preziosi consigli, per il contributo motivazionale durante gli allenamenti e, soprattutto, per la loro amicizia. Ci vediamo a Pescara, ragazzi.

5 commenti:

  1. Non smetteremo mai di supportarti, hai iniziato questo fantastico percorso e hai raggiunto degli ottimi risultati con grandissimi sacrifici, dandoci grande soddisfazione. Ti deve dare motivazione il fatto che Aleida (Dita) guardando una busta della faress dica "papà", che quando torni dagli allenamenti voglio sapere come sia andata e che Emiliano (Picchio) ti aspetta all'arrivo e per lui sei sempre 1°.
    E poi... l'emozione di vedere cosa ci sia nei pacchi gara quando torni a casa... e la mia commozione ad ogni arrivo... Anto

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    1. My Friend..... Mi hai fatto rivivere bei momenti... Anche la cena fatta insieme prima della gara.. Tu e i tuoi cuccioli siete ottimi compagni di viaggio.. Complimenti...

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  2. bellissima storia ste!

    domenica sarà un piacere batterti il cinque quando ci incroceremo!

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    1. @Anto, @Claudiano, @Strong: le storie sono belle se lo sono i personaggi che le popolano, e tutti voi lo siete. Per quanto riguarda il raccontarle, poi, come dice Vasco, le canzoni vengono fuori già con le parole...
      @ Strong: sarà un onore anche per me, anche se non credo che ci incroceremo molto. Quando inizierò a correre io, tu avrai quasi finito...

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  3. Bellissima ed appassionante gara, sai scrivere, Stè: BRAVO!PatMan

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